Giannini, lo smart working, le opinioni e quella solitudine che non c’entra col lavoro da remoto

Le opinioni, si sa, sono (quasi) sempre legittime. Personalmente provo ribrezzo per i peperoni o, per rimanere in ambito tecnologico, preferisco Linux come sistema operativo per i miei computer. Ci sono, tuttavia, dei casi in cui è bene esplicitare che si sta esprimendo un’opinione personale su un tema e che tale opinione ha la valenza che ha: ovvero nessuna, al di fuori della propria vita. È questo il caso quando si parla di lavoro da remoto, che in Italia ci si ostina ancora a chiamare erroneamente “smart working” per il solito abuso di termini inglesi che vengono impiegati senza rispettarne l’effettivo significato (non ci dilunghiamo qui sulla differenza fra “smart working” e “lavoro da remoto”: avevamo scritto un pezzo in proposito).

Smart working: lavorare lontano dall’ufficio rende più soli?

Mi riferisco, in particolare, a un articolo pubblicato a firma di Massimo Giannini su Repubblica, e da lui rilanciato in forma integrale sul proprio profilo Twitter. Giannini sostiene che il lavoro da casa ci rende più soli e che ci porta tutti a diventare dei piccoli Jack Torrance, personaggio di Shining immaginato da Stephen King e portato in vita da Jack Nicholson nella famosa pellicola di Kubrick. Il motivo per cui ricordiamo Shining è proprio che Torrance, nell’isolamento totale dell’Overlook Hotel, ammattisce, e Giannini vede proprio in tale isolamento sociale la causa del malessere psicologico del personaggio. Ignorando che nel libro di King, che viene da pensare Giannini non abbia affatto letto, viene chiaramente spiegato come Torrance fosse già problematico prima di isolarsi nell’hotel, che in ogni caso era purtroppo infestato da presenze paranormali con intenzioni molto poco positive.

No, non lavoro con un MacBook del 2007 dal letto

Ma andando oltre ciò, il problema del pezzo di Giannini è che sembra ignorare completamente la realtà quotidiana di molti, sembra quasi farsi gioco di esigenze molto reali e pratiche, e non supporta le proprie affermazioni con nessun dato. Giannini scrive: “io detesto lo smartworking”, che è una posizione assolutamente legittima. Il problema nasce quando Giannini, per supportare la propria posizione personale, fa affermazioni false (il ministro dello sviluppo britannico non ha affatto reso obbligatori la settimana di quattro giorni e il lavoro da casa: ha detto che il governo supporta e consiglia l’uso di tali strumenti “laddove è pratico”, che è ben diverso) e sminuisce il lavoro da casa riducendolo al lavoro in pigiama e al poter “giocare col pupo”.

Proprio questo punto mi ha molto colpito, perché sembra considerare uno scenario in cui solo gli uomini lavorano (perché qualcuno si deve occupare, di questo “pupo”, e se uno sta lavorando non può giocarci solo nelle pause. Il che implica che qualcun altro, ovvero presumibilmente la madre, se ne stia occupando) o in cui, comunque, il fatto di poter giocare con i propri figli durante le pause anziché parlare con i colleghi non sia positivo. Ci si è sempre lamentati, a ragione, del fatto che il lavoro non consentisse ai genitori di dedicare le necessarie attenzioni ai figli, e ora che è possibile si dice: “ah, i bei tempi in cui si stava in ufficio fino a notte fonda”. Bisogna, credo, fare pace con se stessi.

La dimensione sociale e lo spirito del tempo

Ma un altro aspetto che colpisce è che Giannini scrive che rimpiange la dimensione sociale del lavoro e afferma: “più casa e meno ufficio, più social e meno contatto fisico, è un mix che fa sentire le persone sempre più sole”. Non sembra rendersi conto, però, che mostra così il fianco a critiche ovvie: se l’unica forma d’interazione umana che si ha è con i colleghi in ufficio, c’è un problema alla base che è indipendente dal lavoro da remoto. Anzi: lavorare da casa consente a molti di avere interazioni più “sane”, perché scelte e ricercate, con amici, vicini di casa e di quartiere, parenti e così via.

C’è poi il fatto che spesso le persone più timide e introverse, o meno arroganti e arriviste, a seconda del punto di vista, faticano a emergere negli uffici, mentre hanno maggiore facilità a farlo lavorando da remoto, in un contesto in cui conta di più quello che si fa (e come) rispetto alla “simpatia” o alla capacità di mettersi in mostra a scapito degli altri. Con ciò non intendo che tutti i rapporti in ufficio debbano essere di questo tipo, perché ci sono ovviamente interazioni sane e positive, ma voglio dare l’altra faccia della medaglia.

C’è sicuramente da affrontare il problema del rimpiazzo del contatto “reale”, di persona, con il contatto solo virtuale e digitale, ma è un problema che va ben al di là del lavoro da casa. È un problema sociale, societario, che coinvolge anche (e forse, in questa fase, soprattutto) le persone più giovani che ancora non si sono affacciate sul mondo del lavoro. Insomma, per farla breve, è un problema che col lavoro da remoto c’entra ben poco e ha forse più a che fare (ma lo dico esplicitamente: è la mia opinione personale) con un cambiamento in corso nella nostra società e nel nostro modo di sentire, per cui ci sentiamo più soli e questo sentimento poi ci porta effettivamente a essere più soli. Le cause sono complesse e non credo possano essere riassunte in poche righe, ma possiamo dire questo: è cambiato lo Zeitgeist, il sentire della società, e con esso quello degli individui. Il bellissimo film Wall-E dà bene l’idea di quale sia il rischio che corriamo.

Le opinioni restano opinioni, i dati restano dati

Ma torniamo al punto. Personalmente ho sempre lavorato da remoto: in quasi 15 anni di lavoro avrò fatto, sì e no, un mese in ufficio in totale. Non per questo credo che la mia socialità ne abbia risentito, né d’altronde avete letto sui giornali di crimini efferati da me compiuti per la supposta solitudine in cui mi sono trovato. Non pretendo, però, di assumere a verità fondamentale la mia esperienza personale: il lavoro da remoto non funziona per tutti proprio da un punto di vista psicologico, questo è un dato di fatto assodato. Alcuni adorano lavorare da casa, altri lo odiano. Ma proprio per questo è importante ribadire, quando si parla della propria esperienza, che è solo la propria esperienza e che non è possibile trarne delle regole generali. Se lo si vuole fare, bisogna fare come in questo articolo della BBC in cui si snocciolano i dati. Che dicono, per inciso, che non c’è una regola generale: ci sono dei vantaggi così come degli svantaggi e bisogna valutare caso per caso.

Ma se si vuole fare un’analisi che vada al di là del sentimento personale, che non ha alcun valore, non si può comunque fare a meno di consultare i dati. Perché altrimenti il rischio è quello viene citato in fondo al pezzo: rinchiudersi in un proprio bozzolo e dimenticarsi degli altri. Proprio la cosa che, ironicamente, ha fatto Giannini.